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“Il letto nell’aia”: il riscatto di Plantone poeta-contadino

Da piccolo doveva badare alle pecore e per questo si vergognava, tanto da nascondersi dagli amichetti che invece frequentavano la scuola elementare. Un giorno però, nei primi anni ’50, li viene donato un libro di poesie in dialetto nocese di Vittorio Tinelli. Scatta così in Giuseppe Plantone la voglia di imparare a leggere, acculturarsi e scrivere poesie.

Gli anni tra il 1940 e il 1950 non erano di certo facili. Si usciva dalla Seconda guerra Mondiale e si entrava nella guerra fredda, non si era ancora concretizzato il boom economico, e la vita porta con sé un immenso sacrificio umano. Ma il nostro novello Di Vittorio non si scoraggia e al pascolo del gregge inframezza letture di fascicoli dell’enciclopedia. Una parola al giorno, un passo alla volta. Da autodidatta Plantone inizia ad appuntare su pezzi di carta alcuni aneddoti, storie di vita, inizia a descrivere il lavoro nei campi. Nascono così componimenti come “1944”, “I Martenise”, “I Nusce”, “A vita nòste” capolavoro che racchiude in sé tutte le fatiche e il modo di vivere contadino.

La sua spettacolare vicenda, che nei film potrebbe essere descritta con la voce “tratto da una storia vera”, è raccolta nel libro “U litte mminze all’ère” (Il letto nell’aia) edito da Aga Editore e presentato a Noci sabato scorso dal Centro Studi sui Dialetti Apulo-Baresi. Un’entusiasta Mario Gabriele lo descrive e lo avvicina alla figura di Rocco Scotellaro mentre per il prof Giovanni Laera la poesia di Peppino Plantone «è diretta, lucida e priva di infingimenti».

Stefano Plantone, figlio dell’autore, ha voluto ringraziare pubblicamente quanti si sono adoperati fattivamente per trasformare il sogno di suo padre in realtà e riscattare così tutti gli agricoltori e braccianti agricoli che negli anni ’50 lavorarono duramente le campagne e i vigneti attorno a Torre Abbondanza e nei terreni tra Martina Franca e Mottola.    

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